Formazione
13 Apr 2014

Precarietà lavorativa: se fosse un problema di organizzazione?

La tendenza dominante nel nostro paese è quella di considerare la precarietà il frutto malato di dissennate politiche del lavoro volte unicamente a massimizzare la flessibilità delle imprese a discapito della sicurezza e del benessere dei lavoratori. Una concezione quindi di tipo essenzialmente vittimistico, basata su un’idea di rapporto inevitabilmente  antagonistico fra lavoratore ed impresa. Seguendo questo percorso, diventa inevitabile convincersi che le soluzioni possano essere solo di tipo dirigistico, ovvero attraverso interventi di tipo legislativo sulle norme che disciplinano i contratti di lavoro. In pratica un’ennesima ammissione di impotenza della società civile di fronte allo strapotere della “politica” (quella con “p” minuscola) sulle nostre vite.  Proviamo però per un attimo a considerare il fenomeno sotto un altro punto di vista.

Le dinamiche organizzative delle aziende rispondono sicuramente alle variazioni dell’ambiente esterno: tra i molti fattori che ne fanno parte, negli ultimi anni sono diventati dominanti quelli ascrivibili al “mercato” (clientela e concorrenza).  In particolare quello europeo ed italiano hanno subito negli ultimi decenni una profonda trasformazione passando da un sistema di produzione di massa manifatturiero ad un modello molto più articolato che ha comportato una netta crescita di tutti quei ruoli che una volta sarebbero stati classificati come “indiretti”.  Per non parlare dello sviluppo dei servizi, da quelli professionali a quelli commerciali, fino a quelli rivolti “alle persone”. La conseguenza organizzativa principale è stata la diminuzione (o la scomparsa “apparente”) delle tanto detestate (almeno ideologicamente) mansioni operative standardizzate che, nell’immaginario collettivo, rendevano i lavori monotoni, alienanti e persino disumani. I ruoli moderni sono sicuramente molto più vari: forse anche troppo però. I ruoli che una volta erano totalmente deresponsabilizzati devono invece, ad esempio, saper prendere decisioni in modo rapido ed efficace e soprattutto hanno oggi un contenuto tecnico specialistico incredibilmente più elevato. Fra le molte conseguenze che questa repentina trasformazione ha provocato, una è particolarmente rilevante per il fenomeno in oggetto: la disparità in termini di produttività che si può generare fra lavoratori che ricoprono lo stesso ruolo. Nell’epoca “fordista” fra persone con abilità nettamente diverse si potevano consuntivare differenze di efficienza dell’ordine di pochi punti percentuali. Il metodo di lavoro imposto dall’azienda, sebbene fosse considerato “prevaricante e spesso alienante”, calmierava le naturali differenze di capacità, abilità e di competenza emotiva dei diversi individui. Nell’epoca post-industriale invece l’onere della micro-organizzazione del lavoro ricade quasi totalmente sul lavoratore: la sua discrezionalità micro-organizzativa è cresciuta e con questa le differenze di produttività che si generano fra lavoratori con attitudini, preparazione e capacità emotive diverse. La conseguenza principale si misura in termini di produttività (e spesso anche in qualità dell’output), e può raggiungere differenziali enormi, dell’ordine del 30-50% fino al 100-300% nei casi più eclatanti. Cosa influisce su questi risultati così diversi tra un lavoratore post-moderno ed un altro? Citiamo solo 3 semplici esempi di competenze che possono creare profonde differenze di prestazione:

1.       la conoscenza evoluta dei più comuni programmi di “office automation” come ad esempio i fogli elettronici: sapere creare piccoli dababase, estrarre tabelle di sintesi e impostare grafici, dovrebbe costituire un bagaglio di competenze basilare per qualsiasi giovane diplomato e (ancor peggio) laureato.

2.       La capacità di organizzare il proprio tempo ovvero la “risorsa scarsa” per eccellenza: essere abituati a “guardare avanti”, a non subire passivamente gli eventi, a considerare il proprio carico di lavoro in rapporto al tempo disponibile ed alle scadenze imposte, consuntivarlo e migliorare sistematicamente la propria programmazione. In realtà tutto più facile da fare che da raccontare ma è necessario avere un prolungato allenamento mentale.

3.       Saper scrivere in modo sintetico, efficace, con un linguaggio corretto ma allo stesso tempo essenziale e facilmente sintonizzabile sulle specificità del settore in cui opera l’azienda. Meglio se la persona sa adattare la propria scrittura allo stile che i vari strumenti di comunicazione web oggi impongono (SEO e social media).

 L’elenco non è ovviamente esaustivo ma vuole solo fornire degli esempi reali e diffusi. Un giovane con una solida preparazione sui “fondamentali” è molto meno a rischio di diventare un precario perché può risultare subito utile a qualunque organizzazione. Nel mondo sempre più competitivo, sono sempre meno frequenti gli “sciocchi” che si lasciano scappare un giovane talento, cioè una persona in grado di crescere velocemente e di diventare in tempi rapidi un lavoratore altamente produttivo e con elevate prestazioni qualitative.

Dalla parte del giovane lavoratore, la sensazione di diventare sempre più padrone del proprio destino lavorativo fornisce autostima e nuova energia vitale. Conviene quindi lavorare su stessi, senza aspettarsi interventi esterni o aiuti da una società purtroppo sempre più lontana dalle esigenze dei nostri ragazzi.