Non esiste manuale di management e di gestione delle risorse umane che non contenga almeno un capitolo dedicato al corretto stile di leadership che dovrebbe essere, a detta di tutti gli esperti, comprensivo, tollerante, equilibrato e soprattutto attento a mettere in evidenza più i risultati positivi dei collaboratori del manager piuttosto che i loro errori o, peggio ancora, i limiti e le lacune di competenze.
Questa scuola di pensiero si è diffusa così tanto da farmi venire un dubbio: ma il leader deve essere anche un pedagogo? Si deve cioè occupare anche del percorso di crescita educativa e formativa dei suoi collaboratori? Magari intervenendo su errori ed omissioni dei genitori o degli altri tutori educativi del “fanciullo/a” (anche se lui/lei dovesse avere già superato di slancio i 25-35….forse anche 40 anni)?
La mia esperienza personale mi porta a dare un risposta secca: NO.
Il leader deve guidare, dare l’esempio, essere coerente nell’accostamento fra parole ed azioni (almeno provarci il più possibile) ma NON deve assumere il ruolo di pedagogo! La crescita emotiva e caratteriale degli individui deve necessariamente passare dalle esperienze della vita, anche le più dolorose (forse principalmente da quelle), non dalla cura “amorosa” e tollerante di un manager troppo “people oriented”.
Il leader deve premiare i comportamenti virtuosi ed i risultati positivi ma deve anche sottolineare gli errori, sanzionare i comportamenti errati e anche talvolta “martellare psicologicamente” gli individui che hanno bisogno di essere spronati e pungolati, perché palesemente sottoperformanti.
Magari qualcuno di loro capirà che quello non è “il suo mestiere” oppure sarà “punto nell’orgoglio” fino a volersi prendere delle rivincite personali in un altro ambiente lavorativo.
Meglio per tutti!
Se l’ambiente lavorativo e di tipo “high performance requested” fra l’attenzione alle persone e quella ai risultati, il buon manager deve dare precedenza ai secondi.
Le persone che hanno necessità di completare il ciclo di maturazione personale dovranno imparare a “risalire da soli sulla barca rovesciata”. Altrimenti non svilupperanno mai quella resilienza oggi tanto necessaria per sopravvivere nel mercato globale.
A. Parisi